Bianche o Rosse? Fibre e sopravvivenza del più adatto

Le fibre muscolari, dalla loro comparsa negli organismi pluricellulari hanno determinato la sopravvivenza o il fallimento di ogni singolo essere vivente, per milioni di anni. La loro composizione ha sempre determinato le prestazioni degli individui, ma anche di intere specie: esistono specie che basano la loro strategia di sopravvivenza sulla FORZA, ed altre che si affidano invece alla VELOCITA’. E la nostra specie?

 

 

Facciamo un passo indietro: il tessuto muscolare, che mostra una sorprendente resilienza al cambiamento nel corso dell’evoluzione, negli animali vertebrati, è composto, come ben noto, da fibre muscolari, dotate di capacità contrattili. La comparsa di tessuti muscolari semplici fece letteralmente la differenza nei mari di 550 milioni di anni fa, permettendo a diversi gruppi di organismi IMMOBILI, simili agli odierni anemoni di mare, di staccarsi dal fondo e muoversi liberamente. La muscolatura cosiddetta “bianca”, quella che oggi chiamiamo viscerale era già presente in queste creature naturalmente, ma l’evoluzione della muscolatura rossa, quella che coordina i movimenti cambiò radicalmente le cose, e permise loro di diventare predatori attivi e al tempo stesso di fuggire da catastrofi sottomarine quali eruzioni e terremoti sottomarini. Le fibre contrattili innescarono l’evoluzione di esseri sempre più complessi e veloci, plasmando la vita nelle forme che conosciamo oggi. Le fibre muscolari, come è noto, sono composte da cellule chiamate miociti che contengono due tipi di microfilamenti, in grado di interagire tra loro: filamenti lunghi e sottili formati dalla proteina ACTINA e filamenti corti e spessi, formati da MIOSINA, le cui interazioni dinamiche regolano le capacità contrattili della singola cellula. La muscolatura, secondo l’istologia e la fisiologia, appare composta da diversi tipi di fibre: fibre di TIPO I, a contrazione lenta, e più ricche di mitocondri, dette FIBRE ROSSE, (molto irrorate di sangue) e fibre di TIPO II A e II B, a contrazione veloce esplosiva, in grado di rispondere a stimoli nervosi ad alta frequenza, connesse a prestazioni di VELOCITÀ, dette FIBRE BIANCHE (meno irrorate di sangue). In realtà la situazione è più complessa di così perché in ogni muscolo del corpo la presenza e la composizione delle fibre (rosse, bianche o intermedie) è variabile e a fare la differenza è più la percentuale di fibre di ciascun tipo nella singola unità motoria rispetto alla prestazione delle singole fibre.

 

 

 

Come si è capito fin qui, per ogni essere vivente, la percentuale di fibre nei muscoli e il tipo di muscolatura risultano fondamentali per determinarne le prestazioni, e in ultima analisi l’intero stile di vita. Pensiamo ad esempio alla differenza fondamentale nelle strategie di caccia di due gruppi di carnivori ben noti al pubblico, felini e canidi: Leoni, tigri e anche gatti domestici sono predatori che fanno affidamento sulla FORZA più che sulla resistenza e sulla velocità, invece i canidi, lupi, volpi e licaoni sono animali che puntano tutto sulla velocità e sulla resistenza: se un felino non riesce ad abbattere la sua preda dopo un brevissimo inseguimento, desiste; al contrario una muta di lupi può inseguire la sua preda per ore, fino allo sfinimento. E la nostra specie? Sappiamo che in generale la FORZA FISICA assieme alla VELOCITA’ sono sempre state fondamentali per la sopravvivenza di tutte le specie umane che si sono avvicendate sul Pianeta negli ultimi sette milioni di anni. Ma QUALE DELLE DUE RISULTAVA MAGGIORMENTE DETERMINANTE? Non è facile rispondere in modo univoco a questa domanda, non per tutte le specie umane allo stesso modo, quantomeno. Infatti le cose sono cambiate per le varie specie di ominidi, nel lungo cammino che ha condotto alla comparsa e allo straordinario successo evolutivo dell’unica specie umana rimasta in vita: Homo sapiens, la nostra specie. Nati come PREDE, le prime forme umane che si sono spostate a vivere dalle foreste alle savane aride del Pleistocene, probabilmente facevano riferimento molto più sulla VELOCITA’ e sulla RESISTENZA, che sulla forza. Infatti le ricostruzioni di tali forme di ominidi ci mostrano esseri dalle corporature esili, dalle gambe lunghe, non ancora compiutamente predatrici, che probabilmente approfittavano delle carcasse abbandonate da carnivori ben più letali e potenti di loro, dei quali diventavano probabilmente vittime esse stesse, se non erano in grado di ritirarsi velocemente, rispondendo con una fuga disordinata alla comparsa di uno dei grossi carnivori che battevano le savane africane tra i 10 e i 2 milioni di anni fa.

 

 

Le cose erano destinate a cambiare con la comparsa delle forme umane più recenti, con l’uso del fuoco e con le aumentate capacità di costruzione di arnesi di caccia: con la comparsa delle specie umane del genere Homo, i nostri antenati cominciano a diventare predatori attivi, potenti e letali quanto e più dei grossi felini che per milioni di anni ne avevano minacciato la sopravvivenza. E che tipo di caccia e quale tipo di FIBRE MUSCOLARI sarebbero state premiate dalla selezione naturale in queste nuove forme umane? Non adattati evolutivamente per una caccia simile a quella dei lupi, e al contempo privi delle zanne poderose e delle zampe possenti dei felini, gli esseri umani potevano però contare sul cervello più grosso e duttile che l’evoluzione avesse mai prodotto. E il cervello li condusse sulla strada già percorsa dai grandi felini: pur non avendo muscoli fossili da studiare per verificare la presenza percentuale di FIBRE ROSSE e FIBRE BIANCHE, abbiamo però ossa fossili che mostrano siti di inserzione muscolotendinei, e soprattutto arnesi da caccia e costruzioni per le imboscate che ci mostrano che le strategie di caccia dei primi uomini “moderni” erano in realtà molto più simili a quelle dei felini che a quelle dei canidi.

 

 

Possiamo quindi sostenere che con buona probabilità le strategie di caccia dei nostri antenati erano basate sulla FORZA e sulle FIBRE ROSSE: le prede non potevano essere battute sulla VELOCITA’, prestazione di animali corridori che i nostri muscoli non erano certo ingrado di eguagliare, ma i branchi potevano essere accerchiati e quindi spinti in aree dove la fuga era loro impossibile, quindi uccisi attraverso arnesi che richiedevano l’uso di una grande FORZA come lance, spiedi e propulsori: la nostra tecnologia non era in grado di darci gambe veloci come lupi, ma era senz’altro in grado di produrre arnesi che imitassero le zanne e gli artigli dei grandi felini. Quindi ci adattammo a cacciare in branco, come leoni. In questo contesto evolutivo appare sensata anche la crescente mole di dati che indica come la CONSERVAZIONE DELLA FORZA nelle persone in età avanzata risulti fondamentale e più efficace del lavoro sulla velocità e sulla resistenza: per milioni di anni infatti, perdere la VELOCITA’ poteva significare andare incontro alla morte a causa di una predazione (i carnivori continuarono ad essere una significativa causa di mortalità per le popolazioni umane fino all’avvento dell’agricoltura, quando in molte regioni vennero quasi completamente decimati), un evento possibile, ma meno pressante rispetto al procurarsi abbastanza cibo; al contrario, PERDERE LA FORZA avrebbe significato una morte molto più veloce, a causa dell’incapacità di cacciare.

 

 

Sebbene le popolazioni umane, grazie alla sorprendente capacità di suddivisione del lavoro, potessero contare sulla condivisione delle risorse alimentari con tutti i membri del gruppo, grazie alla quale anche i membri anziani ricevevano sostegno e cibo in età avanzata (cosa che raramente si verifica nelle altre specie animali sociali), è indiscutibile che un numero troppo elevato di cacciatori anziani privi della necessaria FORZA per contribuire alla sopravvivenza del gruppo, avrebbero rappresentato un problema serio per la sopravvivenza dell’intero gruppo. Per questo salvaguardare la FORZA e le relative prestazioni muscolari è fondamentale per migliorare le condizioni di salute e la dignità nelle fasce senior. Approfondiremo questo tema nei prossimi incontri.

 

 

 

Simone Masin, M. Sc, PhD, M.ES Università Bicocca di Milano

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