La caffeina è la sostanza psicoattiva più utilizzata al mondo. L’80% della popolazione mondiale assume caffeina quotidianamente con un intake medio pari a 200 mg (il contenuto di circa 2 tazzine di caffè).
Socialmente riconosciuta come “stimolante”, la caffeina trova impiego soprattutto per il miglioramento delle funzioni cognitive e della performance fisica in generale. Per queste prerogative, la caffeina è stata considerata a lungo una sostanza dopante bandita nelle competizioni sportive ufficiali (fino al 2004) e da sempre alla popolazione se ne raccomanda un’assunzione limitata, soprattutto su soggetti molto giovani o anziani e su soggetti a rischio di patologie cardiache.
Recenti studi portano alla luce dati che fanno rivedere le storiche posizioni sugli effetti avversi della caffeina, sottolineando in certi casi come alcuni processi fisiologici possano essere resi più efficienti grazie all’uso di questa sostanza.
Fonti di caffeina e metabolismo
“Caffeina” è il nome comune della 1,3,7-trimetilxantina. È una molecola liposolubile presente naturalmente in numerose fonti alimentari (caffè, tè, cioccolata, matè, guaranà e noce di cola) e viene addizionata in molti energy drink e sport food. Il contenuto di caffeina in questi prodotti è molto variabile in relazione alla qualità e alla varietà delle materie prime d’origine e alle tecniche di preparazione (tabella 1).
L’assorbimento della caffeina avviene rapidamente a livello intestinale e raggiunge il picco ematico ad un’ora dalla sua assunzione. A livello epatico la caffeina viene metabolizzata in paraxantina (84%), teobromina (12%) e teofillina (4%), che in parte conservano le attività biologiche della caffeina (Figura 1). La caffeina ha un’emivita variabile tra 3 e 6 ore ed è eliminata con le urine, in cui è possibile rintracciarla in forma invariata in quantità che oscillano tra il 3 e il 10% della dose ingerita.
Meccanismi d’azione ed effetti fisiologici
Non è ancora perfettamente chiaro il meccanismo attraverso il quale la caffeina è in grado di esercitare i suoi effetti, ma l’ipotesi più accreditata è la competizione con l’adenosina per il recettore A1. Tale recettore è presente sulle cellule del Sistema Nervoso Centrale (SNC), del muscolo scheletrico, del muscolo liscio e del tessuto adiposo. Il legame caffeina – recettore A1 genera un aumento dei livelli intracellulari di AMP ciclico (cAMP), con successivo aumento della concentrazione citoplasmatica di calcio e attivazione della pompa Na+/K+.
L’aumento della concentrazione di cAMP nelle cellule adipose è alla base della lipolisi, con rilascio di acidi grassi e glicerolo. Sembra, inoltre, che la caffeina inibisca l’enzima fosfodiesterasi, che trasforma il cAMP in 5’AMP, contribuendo attraverso un’altra via a mantenere elevati i livelli intracellulari di cAMP. Ulteriori meccanismi d’azione della caffeina coinvolgono:
- Stimolo alla liberazione di noradrenalina con conseguente attivazione della termogenesi;
- Up-regulation dell’espressione di “proteine disaccoppianti”, UCP1 in particolare (uncoupling protein 1) presenti sulla membrana mitocondriale interna delle cellule adipose brune e responsabili della dissipazione di calore (termogenesi).
Gli effetti della caffeina sono fortemente condizionati dal suo consumo abituale essendo precoce la comparsa di fenomeni di tolleranza (dopo circa 5-6 giorni di assunzione regolare di caffeina). Le modalità di risposta si differenziano pertanto tra users (consumatori abituali di caffeina con assunzioni che superano i 300 mg/die) e non-users (soggetti la cui assunzione di caffeina è inferiore a 50 mg/die).
Effetti sul Sistema Nervoso Centrale (SNC)
A livello neurochimico l’azione della caffeina si traduce in un aumento del rilascio di catecolammine e β-endorfine, con effetti a livello centrale e periferico. È stato dimostrato in numerosi studi che la caffeina è in grado di incrementare le capacità cognitive, con un miglioramento dello stato d’allerta, dei livelli di attenzione, della lucidità mentale e della memoria a breve termine, della capacità di concentrazione e azione decisionale anche in condizioni di sonno ridotto. Inoltre, la sua assunzione aumenta la soglia del dolore e porta a un rallentamento della comparsa del senso di fatica. Migliorano anche il tono dell’umore e l’autostima. In campo sportivo (entro certi limiti di dosaggio) si ottengono benefici prestativi per ciò che concerne il tempo di reazione, la coordinazione neuromuscolare, la precisione e la velocità del gesto, il controllo di palla, la percezione dello sforzo.
Effetti muscolari e prestazione sportiva
La caffeina stimola la contrattilità muscolare, soprattutto nelle attività di brevissima durata (inferiore ai 10 secondi) che utilizzano il metabolismo anaerobico alattacido (discipline di salto, lancio, tuffi , velocità, combattimento). Negli sport di durata compresa tra 10-15 secondi fino a circa 3 minuti non si ottengono gli stessi benefici,24,25 a causa della riduzione del pH (produzione di ioni idrogeno in seguito a impiego del metabolismo anaerobico-lattacido) che sembra interferire con il meccanismo d’azione della caffeina. Nella maggior parte degli studi in campo sportivo le somministrazioni di caffeina oscillano tra i 3 e i 6 mg/kg. Assunzioni acute di oltre 9 mg/kg di caffeina oltre a non produrre più benefici apprezzabili sulla prestazione possono dar luogo a una serie di effetti avversi (Tabella 2).
Effetti cardiovascolari
L’assunzione acuta di due o tre tazze di caffè provoca incrementi reversibili della pressione sistolica e diastolica a cui spesso si accompagna un abbassamento della frequenza cardiaca. Il cambiamento dei parametri pressori è legato all’azione diretta della caffeina:
- sull’aumento della contrattilità e conducibilità miocardica;
- sull’aumento delle resistenze periferiche per vasocostrizione;
- sull’aumento del rilascio di adrenalina e noradrenalina.
La riduzione della frequenza cardiaca è, invece, legata a un riflesso d’inibizione barocettivo che s’innesca in risposta all’aumento della pressione arteriosa. Nei bambini, pur essendo la caffeina normalmente sconsigliata, non si riscontrano effetti avversi per assunzioni inferiori a 3 mg/kg di peso corporeo; quantità pari a 5 mg/kg causano, invece, aumenti della pressione a riposo a cui si associano disturbi del sonno.
Effetti sul metabolismo glucidico e lipidico
La caffeina stimola la liberazione dei lipidi dai depositi adiposi attraverso l’aumento dell’cAMP. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che tale mobilizzazione aumentasse l’ossidazione dei grassi a scopo energetico con conseguente risparmio di glicogeno. Purtroppo negli anni sono mancate dimostrazioni di una certa consistenza a sostegno di questa ipotesi. Una recente meta-analisi sull’argomento ha evidenziato come le variazioni dei livelli di glicogeno esercizio-correlati (misurati attraverso biopsie muscolari) non siano significativamente diverse utilizzando caffeina rispetto a un placebo (Figura 2). Questo porta a considerare come sebbene la caffeina sia in grado di mobilizzare gli acidi grassi dai depositi adiposi, ciò non necessariamente si possa tradurre in un loro maggiore utilizzo come combustibile biologico (con relativa perdita di grasso corporeo), e conseguente risparmio delle altre fonti energetiche.
Caffeina e malattie cardiovascolari
Due studi di coorte, il Leisure World Cohort Study condotto su 13.624 soggetti anziani per la durata di 23 anni e l’Iowa Women’s Health Study condotto su 27.312 donne in post-menopausa per la durata di 15 anni, indicano come gli users possano ridurre il rischio di mortalità rispettivamente del 10% e del 20% rispetto ai non users.
Altre indagini che hanno coinvolto complessivamente 128.493 soggetti (Health Professionals Follow-Up Study e Nurses’ Health Study) non hanno riscontrato nessuna associazione tra consumo di caffè e patologie coronariche, facendo addirittura emergere un’associazione inversa tra assunzione cronica di caffè (users) e rischio d’infarto. Sull’associazione caffeina-ipertensione rimane ancora qualche perplessità.
Due lavori in cui sono stati studiati complessivamente più di 160.000 soggetti per oltre 10 anni non hanno mostrato associazioni significative tra consumo di caffeina o caffè (users) e l’insorgenza d’ipertensione. Altre ricerche, sebbene giungano a simili conclusioni, sottolineano, tuttavia, come l’assunzione di caffeina induca aumenti acuti della pressione sistolica (tra +2.4 e +6.0 mmHg) e diastolica (tra +1.2 e +3.1 mmHg), che pur essendo reversibili in poche ore possono essere però controindicati in soggetti predisposti o che presentano già problemi d’ipertensione.
Caffeina e gravidanza
Nelle donne users si riscontra una riduzione della fertilità, e rimane controindicata la sua assunzione in gravidanza, essendo la caffeina capace di attraversare la placenta senza poi trovare sistemi in grado di metabolizzarla.
Sebbene esistano studi che non evidenziano effetti negativi sul peso del neonato e sulla durata della gestazione consumando fino a un massimo di 3 tazzine al giorno di caffè, numerosi autori indicano come nelle users si possano riscontrare fenomeni d’inibizione della crescita fetale con un aumento del rischio di aborto spontaneo già superando la soglia dei 200 mg/die di caffeina.
Caffeina e patologie psichiatriche
Gli users non hanno maggiore probabilità di sviluppare depressione, disturbi d’ansia, attacchi di panico, disturbi della personalità, dipendenza da alcool o abuso di droga rispetto ai non users. Tuttavia, la caffeina sembra esacerbare i sintomi di ansia in bambini e adolescenti affetti da depressione e in adulti con attacchi di panico, disturbi della personalità e comportamenti antisociali.
Caffeina e patologie neurologiche
E’ stata osservata una ridotta incidenza di demenza in soggetti che assumono da 400 a 650 mg/die di caffeina rispetto a soggetti che ne assumono meno di 300 mg/die. Altri studi riportano una riduzione del tremore associato al morbo di Parkinson, e sembra che un consumo moderato di caffeina (da 1 a 3 tazze al giorno) possa essere inversamente correlato con l’incidenza della malattia.
Caffeina e diabete
Nella maggior parte degli studi presenti in letteratura emerge una relazione inversa tra consumo di caffè e rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2 (DM2). Tale rischio si riduce progressivamente consumando fino a 6 tazze di caffè al giorno. Rimane da chiarire se questi dati debbano essere riferiti agli effetti della caffeina per se o se altri composti presenti nella miscela del caffè possono essere coinvolti nel ridurre il rischio di DM2.
Conclusioni
In letteratura esiste un impressionante numero di studi riguardanti l’utilizzo di caffè nella popolazione umana (tabella 3).
Di particolare rilievo è l’interesse verso il consumo di caffè quale fattore di rischio per malattia coronarica. Su questo argomento un abbondante numero d’indagini epidemiologiche dimostra come il consumo cronico di caffè non incrementi significativamente il rischio di sviluppare eventi coronarici nella popolazione generale, senza tuttavia escludere la possibilità che su soggetti particolarmente vulnerabili o in terapia farmacologica l’assunzione acuta di caffè possa dar luogo a effetti emodinamici e neurochimici indesiderati.
Su soggetti sani, invece, e che non presentano le controindicazioni descritte, entro i limiti di dosaggio stabiliti, l’assunzione anche quotidiana di caffeina può stimolare in maniera controllata, reversibile e positiva processi neuromuscolari, attività metaboliche e cognitive, senza avere effetti considerabili avversi sull’organismo.
a cura di Massimo Negro – PhD Ambulatorio di Nutrizione Clinica e dello Sport, Centro di Medicina dello Sport Voghera, Università di Pavia
e Giuseppe D’Antona – PhD Direttore Sanitario e della Ricerca Scientifica, Centro di Medicina dello Sport Voghera, Università di Pavia
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