“We found that individual humans do, in fact, have speeds at which running is significantly less costly than at other speeds (i.e., an optimal running speed). In addition, we demonstrate that the use of persistence hunting methods to gain access to prey at any running speed, even the optimum, would be extremely costly energetically, more so than a persistence hunt at optimal walking speed.”
Sembra un argomento semplice, ma non lo è: a quale velocità ci siamo evoluti per muoverci preferenzialmente? Siamo nati maratoneti o scattisti? Visto che sappiamo fare entrambe le cose e i nostri corpi oggi sono in grado di ottenere performance apprezzabili in entrambe le discipline, la domanda sembra perfino oziosa. Perché mai dovremmo decidere se alla specie umana odierna, e a tutte le specie che l’hanno preceduta e che hanno contribuito alla sua evoluzione, si addicesse maggiormente l’attività fisica di endurance o quella esplosiva?
Se avete seguito il dibattito che ISSA sta portando avanti da due anni, già conoscete la risposta: le attività fisiche per le quali il nostro corpo—l’insieme straordinario di muscoli, tendini, ossa, molecole trasportatrici di ossigeno, apparato circolatorio e sistema nervoso—si è evoluto, sono le migliori e le più adatte per un allenamento che sia al contempo EFFICACE e CONSERVATIVO: cioè che garantisca prestazioni e fitness senza contemporaneamente danneggiare le strutture. Quindi la domanda “siamo nati per correre o camminare, e a quale andatura?” è molto meno oziosa di quanto non sembri.
Ciò detto, molti sono gli studi di antropologia, evoluzione e biomeccanica che hanno cercato di capire che tipo di caccia svolgessero le specie antiche di umani, partendo da un presupposto: le specie di cui ci nutrivamo, praticamente tutte quelle sulle cui ossa abbiamo trovato resti di predazione da parte di ominidi pre-umani e umani, erano più veloci di noi. E non di noi in quanto pigri e grassi uomini moderni occidentali: più veloci anche delle specie estinte di uomini e più veloci di tutte le popolazioni umane moderne che vivono di caccia e raccolta. Nemmeno il più veloce e allenato boscimane delle popolazioni che vivono oggi nel deserto del Kalahari è in grado di battere in velocità un’antilope, o qualsiasi altro ungulato come zebre, bufali e buona parte delle specie africane. Non siamo mai stati scimmie particolarmente veloci, e ci siamo avvicinati allo stile di vita predatorio da troppo poco tempo perché l’evoluzione ci trasformasse nel modo in cui lo ha fatto con i felini e i canidi, mammiferi carnivori da milioni di anni. Ciononostante, i fossili ci dicono che mangiavamo carne, e non eravamo semplici spazzini. Quindi come ce la procuravamo?
Due sono stati i modelli che hanno tenuto banco per decenni, e che rappresentano le due strategie principali adottate dai carnivori in natura:
Gli scattisti prediligono un avvicinamento furtivo alla preda, teso a minimizzare il più possibile la distanza di attacco per poi giocarsi il tutto per tutto con uno scatto bruciante. La maggior parte dei felini, orsi, coccodrilli e molti rettili carnivori adottano questa strategia. Se un gatto o una tigre non abbattono la preda con uno scatto di meno di 200 metri, semplicemente rinunciano.
I canidi, come lupi, licaoni e volpi, una volta individuata la preda, la stancano con un inseguimento sostenuto che può durare ore, fino ad averne ragione, una volta sfinitala.
E gli umani? Anzitutto bisogna sottolineare che nella scelta evolutiva di un’andatura e, conseguentemente, di una strategia di caccia, giocano diversi fattori:
IL COSTO ENERGETICO: un cacciatore bipede deve ottimizzare il costo energetico dell’andatura che adotta, rispetto alla quantità di nutrienti che otterrà in caso la caccia gli sia favorevole. Il bilancio energetico deve essere positivo!
IL RISCHIO DI DANNI: un predatore deve sempre mettere in conto la possibilità di subire danni, lesioni, fratture a seguito dell’inseguimento o del contrasto fisico con la preda. Gli umani, sin dalle forme più antiche, hanno certamente tratto vantaggio dalla capacità di produrre arnesi da lancio (lance, zagaglie, propulsori con frecce), che hanno indubbiamente lavorato sul punto N.2, riducendo i rischi connessi al contatto fisico con una preda, e parzialmente anche sul punto N.1, allungando quella distanza che separa il predatore dalla propria preda: se un leone è costretto ad arrivare fino a 200 metri dalla zebra senza che essa si accorga del carnivoro in avvicinamento, un ominide munito di una lancia da scagliare poteva permettersi il lusso di stiracchiare questa distanza di una decina di metri. Quando state pazientemente strisciando tra cespugli e massi da ore, cercando di evitare ogni rumore per arrivare il più vicino possibile a una preda, vi assicuro che una decina di metri diventano importanti!
Le armi da lancio, però, avvantaggiano più i cacciatori scattisti che i maratoneti, e questo è un punto importante da tenere presente.
Il dibattito se l’uomo sia più uno scattista o un maratoneta prende le mosse da un secondo ragionamento: negli animali quadrupedi, il costo energetico incrementa in modo LINEARE con la velocità, al passaggio da un’andatura all’altra (passo, trotto, galoppo) (Taylor et al., 1982): più un animale quadrupede va veloce, più consuma energia.
Invece, secondo molti studiosi (Carrier, 1984), il vantaggio evolutivo di un ominide bipede sta proprio nel NON AVERE una velocità ottimale unica, e poter così adattare la propria andatura a un range molto ampio di prede, in modo da stancarle e abbatterle. Il lavoro di Steudel-Numbers et al., del 2009, ha testato appunto questa ipotesi su nove soggetti umani moderni, che sono stati testati in relazione al dispendio energetico connesso al mantenimento di diverse velocità per un tempo standard. La conclusione è stata che nella specie umana non esiste una velocità energeticamente ottimale, ma che ciascun soggetto aveva una propria andatura energeticamente ottimale. In ogni caso, una caccia di lunga durata con il mantenimento di un’andatura “da maratoneta” sarebbe stata quella energeticamente più costosa e quindi la meno efficiente: in poche parole, cercando di stancare un branco di antilopi o di bisonti per ore, c’era il rischio molto concreto che a stancarsi fossimo prima… noi!
Questo sembra confermare che il bipedismo negli ominidi, associato alla capacità di forgiare arnesi da caccia da lancio, abbia permesso sì una notevole plasticità nella scelta dell’andatura più adatta ad avvicinare la preda del momento, ampliando quindi il range di prede a cui queste scimmie nude cacciatrici avevano accesso, ma che la caccia più conveniente restasse quella di appostamento e di scatto. In altre parole, fossimo e siamo tuttora più scattisti che maratoneti. Questo potrebbe darci alcune indicazioni su quale sia un allenamento efficace e anche alcune spiegazioni sulla distribuzione delle fibre bianche e rosse della muscolatura dei nostri arti inferiori.
Simone Masin, M. Sc, PhD, M.ES Università Bicocca di Milano
Autore: Simone Masin
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