Sede dei depositi adiposi con un metabolismo complesso e “difese” efficaci per contrastare il dimagrimento
Quando ci si avvicina al mondo della biochimica e della fisiologia si apre una porta dietro la quale se ne incontrano altre cento e poi altre cento, in un complesso meccanismo di interazioni complesse e assai spesso difficili da capire. Quando poi si parla di grasso la situazione diventa “scivolosa” e le notizie che si possono raccogliere dalla letteratura mutano rapidamente e spesso sono in contrasto tra loro.
Pensiamo quindi di affrontare una parte del problema in modo breve, sapendo bene che l’argomento, per essere esaustivo, necessiterebbe di un intero volume.
Il cosiddetto “fat point” è un punto specifico che individua in un soggetto il suo livello di grasso.
È importantissimo nel bambino perché ne delineerebbe il suo futuro preservandolo o meno dall’obesità, ma non è meno importante nell’adulto perché le sue variazioni incidono fortemente sulla composizione corporea e sullo stato di salute del soggetto.
In pratica è la quantità di “grasso consolidato”, di adipe o tessuto adiposo che è parte integrante dell’organismo da un periodo di tempo lungo e sufficiente affinché il corpo e il sistema nervoso centrale, oltre che quello vascolare ed endocrinologico, ne possano aver preso consapevolezza ed abbiano sviluppato le strutture anatomiche idonee a sostenerlo.
Una tale situazione consente all’organismo di recepire direttamente e indirettamente le variazioni di livello di grasso dovute ad esempio alle diete, facendo sì che si inneschino meccanismi di compenso che, nella maggior parte dei casi, tendono a proteggere l’organismo dalla perdita di grasso.
Vi sono due tipi distinti di tessuto adiposo: bianco e bruno.
Il tessuto adiposo bianco è ampiamente distribuito nel corpo: gli adipociti di questo tessuto sono cellule di grandi dimensioni e di forma sferica, riempiti da una singola grande goccia lipidica (trigliceridi) che costituisce circa il 75% della massa cellulare e che disloca il nucleo e i mitocondri in uno strato sottile sotto la membrana plasmatica.
Nell’uomo adulto sano il tessuto adiposo bianco costituisce circa il 15% della massa corporea, è metabolicamente molto attivo e risponde a stimoli ormonali interagendo con il fegato, il muscolo scheletrico e il cuore.
Come altri tipi di cellule, gli adipociti hanno un attivo metabolismo glicolitico, ossidano il piruvato e gli acidi grassi tramite il ciclo di Krebs e compiono quindi la fosforilazione ossidativa.
Durante i periodi in cui l’organismo consuma prevalentemente carboidrati il tessuto adiposo converte il glucosio, tramite il piruvato e l’acetil-CoA in acidi grassi e gli stessi in trigliceridi, immagazzinandoli in grossi globuli nelle cellule.
Dato che nell’uomo gran parte della sintesi degli acidi grassi avviene nel fegato, gli adipociti immagazzinano i trigliceridi che arrivano dal fegato e dal tratto intestinale, in particolare dopo un pasto ricco di lipidi.
Al contrario, quando aumenta la richiesta di combustibile metabolico, le lipasi degli adipociti metabolizzano i trigliceridi immagazzinati e rilasciano gli acidi grassi che vengono trasportati dal torrente circolatorio al muscolo scheletrico e al cuore. Questo tipo di meccanismo è fortemente condizionato, ad esempio, dall’adrenalina.
Le lipasi quindi hanno l’effetto, sotto lo stimolo ormonale, di liberare elementi energetici: l’insulina contro-bilancia l’effetto dell’adrenalina diminuendo l’attività delle lipasi.
Bisogna ricordare che nel tessuto adiposo il glicerolo, liberato dalla lipasi sotto l’influsso degli ormoni, non può essere riusato per formare ancora trigliceridi perché gli adipociti non possiedono l’enzima glicerolochinasi.
Quindi la via per riformarli passa attraverso il metabolismo del piruvato che attiva la gliceroneogenesi che comporta l’intervento dell’enzima fosfoenolpiruvato (PEP). Sembra difficile ma come si vede, in realtà, è la presenza o la mancanza di un enzima che condiziona il processo metabolico.
In aggiunta alla sua funzione principale di deposito di combustibile metabolico il tessuto adiposo svolge un ruolo importante come organo endocrino producendo e rilasciando ormoni che segnalano lo stato delle riserve energetiche e coordinando il metabolismo dei grassi e dei carboidrati nell’intero organismo.
Incontriamo adesso gli adipociti bruni, che costituiscono appunto il tessuto adiposo bruno, che si differenzia da quello bianco in quanto è costituito da cellule più piccole e di forma diversa.
Come gli adipociti bianchi, anche quelli bruni immagazzinano trigliceridi, ma sottoforma di molte piccole gocce invece che un singolo vacuolo centrale. Inoltre hanno più mitocondri e sono più irrorati dai capillari rispetto a quelli del tessuto bianco. Sono i citocromi mitocondriali e l’emoglobina dei capillari a conferire al tessuto il colore bruno.
Una caratteristica specifica di questo tipo di cellule è l’espressione del gene UNC1, che codifica la termogenina, una proteina mitocondriale responsabile della principale funzione del tessuto adiposo bruno: la termogenesi.
Negli adipociti bruni gli acidi grassi vengono rilasciati nel citosol cellulare, entrano poi nei mitocondri in cui vanno incontro alla beta-ossidazione e alla partecipazione attiva del ciclo di Krebs. In questo modo si producono molecole energetiche che vengono trasferite ai tessuti.
Un altro meccanismo, legato evidentemente all’ontogenesi umana, è che questa energia può anche essere dissipata sotto forma di calore che può mantenere il corpo, specialmente il sistema nervoso centrale e i visceri, alla sua temperatura ottimale, anche quando la temperatura ambientale è relativamente bassa.
Nel feto umano la formazione del tessuto adiposo bruno inizia attorno alla ventesima settimana di gestazione e al momento della nascita il tessuto adiposo bruno costituisce l’l % del peso corporeo.
Subito dopo la nascita ha inizio lo sviluppo del tessuto adiposo bianco, mentre quello bruno comincia a scomparire, e nei soggetti adulti questo deposito è praticamene assente anche se gli adipociti bruni sono sparsi tra quelli bianchi, dove possono costituire l’1% di tutte le cellule adipose.
Numerosi studi hanno recentemente identificato la produzione di differenti adipochine nel tessuto adiposo localizzato in distretti anatomici diversi.
Il tessuto adiposo viscerale, ad esempio, produce più angiotensinogeno (molecola che interviene nella regolazione della pressione arteriosa), l’interleuchina-6, un attivatore dell’inibitore del plasminogeno ma, al contrario, meno leptina rispetto al sottocutaneo.
Nelle condizioni cliniche caratterizzate da un accumulo di tessuto adiposo viscerale l’aumentata e alterata produzione di adipochine può contribuire a creare alterazioni metaboliche e aumentato rischio cardiovascolare.
La resistina è una adipochina recentemente identificata che nell’animale è associata al miglioramento della iperglicemia e della sensibilità all’insulina. Nell’uomo tuttavia la resistina non ha dato i risultati attesi per cui è stato posto in discussione il suo potenziale contributo alla patogenesi dell’insulino-resistenza nell’uomo.
Alcuni lavori hanno dimostrato al contrario che la resistina determina una ridotta sensibilità all’azione dell’insulina nelle cellule muscolari.
Anche la interleuchina-6 (in figura) viene prodotta in quantità maggiore nel tessuto viscerale rispetto al sottocutaneo e si correla positivamente con il BMI e inversamente con la sensibilità all’insulina.
La sua secrezione è aumentata negli adipociti dei soggetti obesi: si spiega quindi la sua azione negativa sul metabolismo epatico e sistemico.
Incontriamo un’altra adiponectina, la gbP28, che è una proteina sintetizzata esclusivamente dagli adipociti in relazione diretta con l’insulino-sensibilità, l’insulinemia a digiuno, il BMI e quindi la quantità di grasso corporeo.
Questa molecola ha un effetto protettivo perché stimola la beta-ossidazione degli acidi grassi, la riduzione degli FFA circolanti e dei trigliceridi nei depositi adiposi. La sua ridotta secrezione diventa quindi un momento fisiologico importante perché facilita l’insorgenza di malattie cardiovascolari.
Troviamo inoltre un’altra adiponectina: la visfatina.
È anche questa una proteina prodotta e secreta soprattutto dal tessuto adiposo e appare correlata direttamente con il grado di obesità, in particolare con quella intraddominale piuttosto che con quella sottocutanea. La sua attività è modulata da altre citochine che promuovono la insulino-resistenza.
Questa molecola contribuirebbe al metabolismo del tessuto adiposo prevalentemente dislocato a livello viscerale, con effetti molto simili all’insulina, tuttavia il suo ruolo nell’obesità umana è ancora da chiarire.
Per concludere questo breve escursus dobbiamo ricordare che l’obesità è essenzialmente di due tipi: ipertrofica e iperplasica.
Ipertrofica, nel senso che le cellule adipose bianche aumentano via via il loro volume sino al limite fisiologico, poi diventano iperplasiche, cioè aumenta il numero delle stesse. Il meccanismo non ha limite purtroppo per cui si può ingrassare in modo indefinito.
Quando si dimagrisce si svuotano gli adipociti bianchi, ma non diminuisce il numero degli stessi. In poche parole, si perde in massa grassa ma non in massa cellulare.
Cosa significa questo? Che dimagrire è sostanzialmente “facile” perché di fatto si svuotano i depositi, ma le cellule restano quiescenti ma pronte ad attivarsi immediatamente nel caso in cui la quantità di cibo ritorni ad aumentare.
In poche parole, gli adipociti bianchi svuotati rimangono silenti ma prontissimi a sviluppare tutta la loro virulenza di fronte ad un aumento di trigliceridi disponibili per il loro metabolismo.
Una delle affermazioni che si incontrano spesso negli articoli di settore è che “gli adipociti sono per sempre”, quasi fossero dei diamanti.
In realtà la situazione non è proprio così fosca perché anche l’adipocita ha un suo ciclo vitale e, se non adoperato, l’organismo ne prevede l’eliminazione tramite la morte programmata (apoptosi) che viene svolta dai macrofagi, spazzini naturali del nostro organismo.
Il problema è che questa apoptosi, e di conseguenza la diminuzione del numero di adipociti vuoti, avviene in un tempo medio-lungo e, a seconda degli autori, si pensa che il tempo medio di sopravvivenza di un adipocita sia
almeno di cinque anni.
Cosa significa questo? Che perdere grasso non è poi così difficile (con tutte le riserve del caso, vedi la diminuzione del metabolismo), ma la cosa più impegnativa è il mantenimento del peso sin tanto che il nostro organismo non abbia eliminato quei silenziosi e affamatissimi adipociti bianchi che, come dei vietcong, rimangono acquattati nel sottocutaneo e nella zona viscerale pronti a rimpinzarsi.
Con queste considerazioni si evidenzia come il tessuto adiposo, al pari di quello osseo, non sia un tessuto amorfo e con un metabolismo modesto, ma al contrario sia una vera fucina metabolica assai difficile da controllare.
Bibliografia
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a cura di Silvano Busin – Direttore Scientifico ISSA Europe già Direttore Riabilitazione Specialistica, Ospedale Sacco, Milano | Docente Corso Laurea in Fisioterapia, Università degli Studi, Milano
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